Dovevo incontrare un’amica al solito posto, per bere qualcosa assieme e condividere una delle tante fette delle nostre vite.
Era tardo pomeriggio e uno stupido, fastidioso vento caldo mi accolse appena scesi in strada.
Un'aria umida, appiccicosa, odiosamente estiva e mi avvolgeva come una pellicola trasparente.
Per un attimo fui tentata di rientrare in casa, a cercare il conforto e la fresca compagnia dell’aria condizionata: ma lasciai perdere l'idea, quindi continuai a camminare, mentre l’afa diventava tutt’uno con i miei vestiti.
Il locale distava poche centinaia di metri da casa mia, non più di dieci minuti di cammino.
Trovato un tavolino libero sotto la tettoia davanti la vetrata del locale, mi sedetti e sistemai la borsa sulla sedia accanto a me.
Immaginavo che avrei dovuto aspettare un po’: la mia amica aveva spesso dei piccoli imprevisti che la facevano arrivare in ritardo; ma sapeva sempre farsi perdonare, raccontando le sue avventure con un tono talmente ironico e divertente che ogni volta riusciva a cancellare il fastidio d’averla aspettata.
Decisi di ordinare comunque da bere, per rendere più sopportabile l’attesa.
Non ho mai saputo aspettare qualcosa o qualcuno senza fare nulla nel frattempo; così, d’istinto, guardai il cellulare e trovai un messaggio della mia amica: “sto arrivando”.
Detta da lei, quella frase poteva significare tutto e niente.
Per cui non la presi molto in considerazione e cominciai a sorseggiare dal bicchiere che era stato lasciato sul tavolo.
Ma quel vino aveva bisogno di prendere aria; quindi posai il bicchiere davanti a me, sospirando la mia rassegnazione.
Alzando gli occhi e attraversando la vetrata con lo sguardo, notai che, oltre a me, c’era solo un altro cliente, seduto su uno sgabello all’interno del locale.
Anche lui aveva quell’aria di chi, aspettando qualcuno e sapendo che potrebbe arrivare da un momento all’altro, si tiene occupato giusto quel tanto che gli permetta di non annoiarsi nell’attesa.
Ci muovevamo in maniera quasi simmetrica: guardava distrattamente in giro, ogni tanto controllava il cellulare e poi tornava a sorseggiare lentamente dal bicchiere, per riempire tutti quegli istanti vuoti che andavano dilatandosi nel tempo che scorreva intorno a noi.
Mi accorsi che potevo guardarlo attraverso il vetro e sovrapporre a lui ciò che la vetrina esterna rispecchiava di me.
Era come se le nostre esistenze, separate solo da quella lastra di vetro, potessero incontrarsi in una dimensione sconosciuta, dove noi due eravamo i soli protagonisti.
Sollevando il bicchiere, provai a muovere un dito in modo che la mia immagine riflessa riuscisse a solleticare il suo naso.
E lo vidi toccarsi il viso nel punto esatto in cui lo avevo sfiorato, virtualmente.
Continuai quello strano gioco, perché non avevo niente di meglio da fare per ingannare l’attesa e perché la faccenda diventava sempre più interessante.
Muovendo ancora le dita, provai a toccargli la fronte; e questa volta lo vidi agitare un mano davanti a sé, come per scacciare un insetto inesistente.
Sforzandomi di non ridere, lo guardavo difendersi da qualcosa di invisibile: era difficile smettere di divertirmi a sua insaputa.
Poi decisi di aumentare il rischio: e provai a passare la mano sulla sua nuca, curiosa di vedere come avrebbe reagito.
Lo vidi guardarsi attorno stupito, come cercando qualcuno che lo avesse sorpreso alle spalle.
E poi si accorse di me.
Che lo osservavo da quello strano punto di vista, come un visitatore di un acquario che guarda i pesci al di qua della vasca.
Presa da infantile imbarazzo, pensai di far finta di niente; ma quella sensazione era troppo speciale per perderla, annegandola in uno stupido senso di vergogna.
E, come se lo conoscessi da sempre, spostai la mano, riflessa nel vetro, sopra la sua, posata sul tavolino.
La sua espressione lasciava capire che aveva percepito e sentito distintamente l’intensa sensazione di quello strano contatto.
E ne era stupito, piacevolmente stupito.
Non riuscivo più a staccare la mia mano dalla sua; ero certa di non aver mai provato niente di simile; stordita da una febbre intensa e magica, da un incantesimo che mi costringeva a restare immobile, a cogliere ogni istante di quel contatto inspiegabile e misteriosamente irresistibile.
Non so per quanto siamo rimasti così, con quella strana espressione di divertita meraviglia sui nostri volti.
Nessuno dei due sembrava volersi staccare dall’altro.
Quando, all’improvviso, la magia fu interrotta dall’arrivo della mia amica.
Non l’avevo neanche sentita arrivare, eppure lei diceva d’avermi chiamata mentre s’avvicinava a me, che le sembravo sotto ipnosi e che aveva persino pensato che stessi male.
Sedendosi accanto a me, mi chiese se andasse tutto bene: e io, come risvegliandomi da un sonno profondo, sorrisi nel modo migliore che potevo, rassicurandola che era tutto a posto.
Mentre la ascoltavo raccontarmi le solite cose, guardai di nuovo oltre quel vetro. Lui era ancora là, mi guardava; forse stava cercando una risposta.
Io non avevo nessuna spiegazione neanche lontanamente logica.
Riuscivo solo a pensare che eravamo due anime perse, ritrovate in quella strana dimensione privata e trasparente, raccolte nel caldo abbraccio di un bicchiere di vino in una afosa sera d’estate.
Due destini incrociatisi per caso, legati per un istante da un sorso di irripetibile, inspiegabile felicità.
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5 commenti:
più che guardabile anzi: bello e ben scritto
Questo racconto era stato pensato per partecipare ad un concorso.
Ma date le remote probabilità di vincerlo -if you can read between the lines- ho preferito metterlo qui, a disposizione di chiunque lo volesse leggere e commentare.
Grazie
Complimenti: avvincente, delicato e semplice. Lo ho letto con vero piacere.
Patt
Grazie, voi create in cucina, e io ... "solo" nella mia mente :-)
"Solo"?
:)))
Patt
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