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domenica 11 settembre 2011

sembrava un giorno come un altro...

11 settembre 2001
Ore 14,44: la vita lavorativa scorreva normale ad orribilandia.

Lo spettro della cassaintegrazione era lontanissimo, neanche si sapeva cosa volessero dire quelle due parole.
Una collega che faceva part time era uscita da poco, io ero al computer ed inserivo ordini.
Automaticamente, quasi sovrappensiero.

Ore 14,45: una visione...
No, un vento gelido...
Un lampo: qualcuno che urla, ma non capisco chi... Cos'è?
Ma no, me lo sono immaginato.
Ancora quella corrente fredda. Forse è una finestra aperta...

Ore 14,50: suona il cellulare. Rispondo. "Sono io. Ho appena acceso la tv. Un aereo è caduto su una delle torri gemelle..."
Ascolto il racconto terribile via telefono, non riesco a capire. Non c'è internet per verificare, solo la voce sconvolta della mia collega che mi spiega.

Ore 15,00: ora capisco quella ventata. E solo adesso mi vengono davvero i brividi.

Il resto, purtroppo, è storia che tutti conoscono.

Ascoltando questa canzone di Peter Gabriel ho sempre pensato che il testo si adattasse molto al sentimento di chi è rimasto, quel giorno, ad ascoltare il vuoto entrargli dentro e non colmarsi più.
Scopro oggi che esiste un tributo alle vittime di quel giorno in cui la canzone è abbinata alle tremende immagini che non dimenticherò mai.

Per tutti coloro che c'erano, che non ci sono più.
Per quelli che sono rimasti soli, ad aspettare.
E a farsi domande che non avranno risposte.
Mai più.


It was only one hour ago
It was all so different then
Nothing yet has really sunk in
Looks like it always did
This flesh and bone
It's just the way that we are tied in
Now theres no-one home

I grieve for you
You leave me
so hard to move on
Still loving whats gone
They say life carries on
Carries on and on and on and on

The news that truly shocks is the empty empty page
While the final rattle rocks its empty empty cage
And I cant handle this

I grieve for you
You leave me
Let it out and move on
Missing whats gone
They say life carries on
They say life carries on and on and on

Life carries on
In the people I meet
In everyone thats out on the street
In all the dogs and cats
In the flies and rats
In the rot and the rust
In the ashes and the dust
Life carries on and on and on and on
Life carries on and on and on

Its just the car that we ride in
A home we reside in
The face that we hide in
The way we are tied in
And life carries on and on and on and on
Life carries on and on and on

Did I dream this belief?
Or did I believe this dream?
Now I can find relief
I grieve

(Peter Gabriel, "I Grieve", dall'album "UP", 2002)


mercoledì 23 febbraio 2011

ma chi è la vera bestia?

Un episodio che VORREI toccasse il cuore di chi non sa quanto siano splendidi gli animali.
Un fatto riportato giorni fa, ma che mi fa ancora, e non me ne vergogno, piangere in silenzio.
http://www.corriere.it/animali/11_febbraio_19/il-beagle-che-resto-accanto-al-segugio-in-trappola-danilo-mainardi_055548dc-3bfe-11e0-b39a-01c3e2bb173c.shtml

martedì 19 ottobre 2010

i nuovi mostri in prima pagina

La curiosità morbosa che esorcizza il male

Ma perché la gente vive con morboso accanimento la brutta storia di Sara e della famiglia Misseri? Sbiadiscono perfino le guerre dei giudici, le inchieste sul premier, i dossieraggi, al cospetto della tragedia di Avetrana.
Sarebbe facile e sacrosanto imbastire un bel processo accusatorio alla tv del dolore, agli sciacalli del video, gli esibizionisti dell’orrore, i grilli parlanti e le iene piangenti.
Aggiungete poi la vergogna del pellegrinaggio di domenica scorsa alla casa dei mostri, una specie di luna park degli orrori.
Sarebbe poi facile notare che tra tanti delitti feroci, ce n’è sempre uno che diventa racconto di massa, saga televisivo-popolare, tormentone mediatico. La Franzoni o la Cesaroni, Erika o Amanda, dimostrano che è l’attenzione mediatica, l’esposizione in tv a rendere il caso esemplare e proverbiale.
E si creano cittadelle dell’orrore, ieri Cogne oggi Avetrana, a dimostrazione che anche la ferocia o la follia non hanno connotati etnici o geografici.
Io invece vorrei proporvi un’altra riflessione. L’umanità ha bisogno di spiegare il male, di confrontarsi con il dolore più atroce, di superare la soglia per vedere dove si nasconde l’orrore.
Ai colti basta leggere Seneca o Sant’Agostino, interrogarsi sul concetto del male e del dolore.
Ma la gente comune coglie il male e il dolore attraverso gli esempi, i casi concreti, la vita di ogni giorno.
Anche Gesù non parlava per concetti ma per parabole, narrava esempi, affrontava singoli casi di malattia e di guarigione, di morte e di resurrezione, per farsi capire.
L’uomo ha bisogno di conoscere storie del male, la grande letteratura è concentrata sul male e sul dolore, a cominciare dalla tragedia greca.
Potete maledire finché volete la tv e i giornali che vi parlano del male e delle disgrazie: ma un aereo che cade fa notizia, diecimila aerei che volano no; Sara che esce con sua cugina non fa notizia, Sara uccisa e stuprata dai suoi famigliari sì.
Trentatré minatori che tornano la sera a casa non fanno notizia, se restano sottoterra per un’infinità di giorni sì. E a loro proposito, la miseria dell’informazione non è stata l’accanimento spettacolare nel seguire la vicenda, ma la banalità di paragonare la loro epopea ai reclusi volontari del Grande Fratello e non ai prigionieri platonici del mito della Caverna o magari alla considerazione che il loro tornare alla luce sia stato come una seconda nascita, dopo una gravidanza pericolosa nelle viscere oscure di Madre Terra.
Critichiamo pure, e giustamente, tutte le esagerazioni, ma non dimentichiamo che alle origini di tutto questo c’è un bisogno innato dell’uomo, la paura del male e la voglia di addomesticarlo, di vederlo in faccia, di viverlo attraverso le esperienze degli altri per esorcizzarlo, per scaricarlo da sé, per sentirsi immuni.
Non ha colpe particolari la tv che ha dato così grande spazio a Sabrina (un nome che a giudicare dall’età sembra anch’esso pescato dalla tv, nata quando impazzava Sabrina Salerno). Non si può giudicare col senno di poi la tv - questa entità magica tra il divino e l’infernale - che ci ha mostrato fino alla nausea Sabrina; la tv non poteva sapere in anticipo quel che poi si è scoperto. E anche la stessa ragazza, che si preoccupa di quel che si dice in tv più che in tribunale, è la versione moderna del paese è piccolo e la gente mormora, o, se vogliamo dare una formulazione più alta, di vox populi vox dei.
È inaccettabile il filo ideologico emerso a ridosso della storia di Sara. Dal coinvolgimento di padre e figlia, e dai casi di violenza sessuale perpetrati gran parte delle volte in famiglia, c’è chi ha dedotto la solita moralina immorale: questa è la famiglia, il luogo degli orrori.
Si perde come spesso succede, la distinzione tra l’eccezione e la norma. Per una famiglia abitata da mostri ce ne sono mille fondate sulla dedizione, l’amore, il sacrificio. Tra i venti milioni di famiglie italiane ce ne sarà qualche migliaio abitata da mostri, magari coperti dall’omertà familiare, e ve ne saranno svariate fondate sulla sopraffazione, la violenza, l’abuso.
Ma la stragrande maggioranza delle famiglie sono il rifugio sicuro, la protezione primaria, la casa degli affetti, il luogo dell’autenticità in cui siamo veramente noi stessi, che nessun’altra realtà sociale può neanche vagamente sostituire. Poi ci sono tante famiglie sfasciate o in crisi permanente, separazioni a grappolo, genitori latitanti e figli debosciati.
Ma la famiglia tradizionale non è il museo degli orrori, come la metropolitana non è il luogo in cui si prendono cazzotti mortali, solo perché è accaduto a una povera infermiera romena. Si scambia la vita di ogni giorno con l’orrore di un evento; si creano muri di diffidenza tra milioni di persone solo perché sparute minoranze abusano della propria libertà.
Certo, c’è bisogno di misura e di sobrietà, c’è bisogno di responsabilità educativa nell’uso dei media, sapendo che il mezzo non è neutrale e se non educa, diseduca. Non va lasciato a se stesso e alle regole del commercio.
C’è bisogno di una tv più diversificata in cui accanto al becero gossip del dolore vi sia anche chi colga l’umanità, tragga riflessioni più alte, sentimenti più nobili e usi le tragedie per far crescere un popolo, senza assecondare la sete di sangue.
Personalmente non guardo i programmi del dolore, detesto le lacrime in diretta e la disperazione rubata al volo dalle telecamere e provo un leggero ribrezzo per gli specialisti della tv del dolore. Ma riconosco che questi riti collettivi sono forme di partecipazione e catarsi comunitaria, e possono essere risposte di civiltà alla barbarie e non l’inverso.
Sin da quando siamo bambini abbiamo bisogno di capire dove si nasconde l’orco, abbiamo necessità di dargli un volto e di delimitarlo in un confine, in un luogo, in un volto.
Perché siamo miseramente, imperfettamente e splendidamente mortali.

(N.d.B.: grassetti e corsivi sono mie sottolineature, non presenti nell'articolo originale)