"Fedele al dettato leopardiano, la domenica sera, nelle nostre case di bambini torinesi/cattolici/borghesi, era un momento di composta tragedia. La vestizione del pigiama, anticipata alle ore del crepuscolo come a voler tagliare di netto qualsiasi discussione sul possibile prolungamento del giorno di festa, immetteva in una specie di liturgia della mestizia nella quale ci si mondava dagli eventuali divertimenti domenicali, ritrovando quella disperazione di fondo senza la quale, era convinzione sabauda, nessuna reale etica del lavoro poteva fiorire, e dunque nessun lunedì mattina era affrontabile. In questa lieta cornice, molti di noi, alle sette di sera, accendevano il televisore, perché c'era la partita. Si noti il singolare. Era effettivamente una partita sola, anzi mezza: ne trasmettevano un tempo, in registrata, prima del telegiornale. Nessuno mai era riuscito a capire con che criterio la scegliessero. Circolava però la voce che la Juve avesse un trattamento di favore. E il Toro, per dire, non c'era quasi mai. Alle volte sceglievano partite finite 0 a 0, e questo ci suggeriva l'idea di un Potere dalle logiche imperscrutabili, e dalla sapienza fuori dalla nostra portata.
Naturalmente la partita era in bianco e nero (alcuni, in un commovente balzo in avanti tecnologico, avevano uno schermo che in basso era verde e in alto, non mi è chiaro perché, viola). Le riprese erano notarili, documentaristiche, sovietiche. Il commento era impersonale e di tipo medico: ma non gli era esente un tratto di follìa che ci avrebbe segnato per sempre. Dato che la partita non era in diretta, il commentatore sapeva benissimo cosa stava succedendo, ma faceva finta di non saperlo. Forse storditi dal crescente odore di minestrina che veniva dalla cucina, noi lo lasciavamo fare, a poco a poco rimuovendo l'assurdità umiliante della situazione. Succedeva allora che d'improvviso, senza nessun avvertimento, arrivato alla fine del tempo e pressato dal telegiornale incombente, il commentatore, senza nemmeno cambiare tono di voce, mandasse in pezzi l'intero nostro sistema mentale, facendo scivolare frasi del tipo: "La partita si è poi conclusa sul 2 a 1, grazie a un goal di Anastasi marcato al 23esimo del secondo tempo". D'improvviso sapeva tutto! E usava il tempo passato per dire il futuro! Era assurdo, e mortificante: ma noi, ogni domenica, tornavamo lì davanti, a farci violentare.
Perché eravamo cervelli semplici. E quello era tutto il calcio che vedevamo in una settimana. Alle volte, alcuni fortunati beccavano qualche partita sulla televisione svizzera. Si favoleggiava di Capodistria, ma non c'era niente di sicuro. E allo stadio si andava, certo, ma quante volte? Era un mondo frugale, quanto a emozioni ed esperienze. L'animale calcio ci sembrava splendido, e forse lo era davvero. Certo però che lo si vedeva poco: e quasi sempre fermo, lontano, su una collina, bello di una bellezza quasi sacerdotale. Era il calcio con cui siamo cresciuti. Crescevamo lenti, allora."
Naturalmente la partita era in bianco e nero (alcuni, in un commovente balzo in avanti tecnologico, avevano uno schermo che in basso era verde e in alto, non mi è chiaro perché, viola). Le riprese erano notarili, documentaristiche, sovietiche. Il commento era impersonale e di tipo medico: ma non gli era esente un tratto di follìa che ci avrebbe segnato per sempre. Dato che la partita non era in diretta, il commentatore sapeva benissimo cosa stava succedendo, ma faceva finta di non saperlo. Forse storditi dal crescente odore di minestrina che veniva dalla cucina, noi lo lasciavamo fare, a poco a poco rimuovendo l'assurdità umiliante della situazione. Succedeva allora che d'improvviso, senza nessun avvertimento, arrivato alla fine del tempo e pressato dal telegiornale incombente, il commentatore, senza nemmeno cambiare tono di voce, mandasse in pezzi l'intero nostro sistema mentale, facendo scivolare frasi del tipo: "La partita si è poi conclusa sul 2 a 1, grazie a un goal di Anastasi marcato al 23esimo del secondo tempo". D'improvviso sapeva tutto! E usava il tempo passato per dire il futuro! Era assurdo, e mortificante: ma noi, ogni domenica, tornavamo lì davanti, a farci violentare.
Perché eravamo cervelli semplici. E quello era tutto il calcio che vedevamo in una settimana. Alle volte, alcuni fortunati beccavano qualche partita sulla televisione svizzera. Si favoleggiava di Capodistria, ma non c'era niente di sicuro. E allo stadio si andava, certo, ma quante volte? Era un mondo frugale, quanto a emozioni ed esperienze. L'animale calcio ci sembrava splendido, e forse lo era davvero. Certo però che lo si vedeva poco: e quasi sempre fermo, lontano, su una collina, bello di una bellezza quasi sacerdotale. Era il calcio con cui siamo cresciuti. Crescevamo lenti, allora."
(A.Baricco "I nuovi barbari")
Ho voluto trascrivere queste parole proprio all'indomani della vittoria italiana - di cui non m'importa granchè in quanto non seguo il calcio, neanche quando si tratta di mondiali - perchè, mentre le leggevo, sono tornata indietro nel tempo, a dispetto del fatto che tra me e l'Autore ci siano dieci anni di differenza.
Sensazione mista di malinconia e stanchezza, compagne inseparabili nelle mie domeniche da bambina.
E nella luce del giorno morente, il riflesso un po' bluastro della televisione in bianco e nero, accesa in cucina, perchè allora c'era un solo televisore in famiglia.
Un nastro odoroso di brodo e pastina si srotolava per tutta la casa, mentre mia madre - sempre lei - strigliava me e mio fratello nel bagno, dal quale non smetteva di impartire disposizioni ad alta voce - in effetti, urlava - a mio padre, intento a preparare la cena e a seguire, per quanto possibile, la partita in televisione.
Poi, esausti e affamati, siedevamo a tavola, le guance rosse per la reazione all'acqua calda e al piacevole vapore saporito che saliva dai piatti.
Momenti consueti e irripetibili al tempo stesso, dove la fine era, in realtà, l'inizio.
Il calore del cibo e dei morbidi pigiami ci guidavano, nell'abbraccio rassicurante e profumato delle lenzuola pulite e fresche, verso i nostri sogni di bambini di un tempo che fu.
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